Il reset di una vita e di un tempo (The Economy of Francesco)
Dal 19 novembre un momento straordinario di confronto e cambiamento ad Assisi: si può sciogliere la nebbia o camminare insieme, non lasciando indietro nessuno
Si varca sempre una soglia e ciò significa entrare in un nuovo spazio, lasciandone un altro alle spalle. Un po’ come quello che mi accadde lo scorso primo dicembre, quando – dopo quasi cinque ore nella nebbia – arrivai ad Assisi. La foschia si sciolse rivelandomi un paesaggio che vedevo per la prima volta, un paesaggio prima di tutto dell’anima.
Quando si presenta il reset di una vita, non ci si rende conto subito che sta avvenendo, veramente a te. Ci si sente in un tira e molla di desideri ed energie. Svuotati e traboccanti, provati e sollevati. È una sensazione che vivo per diversi motivi anche oggi e sono grata a questa sosta che mi offre ancora una volta Assisi dal 19 novembre, con “The Economy of Francesco”.
Uso il termine “reset di una vita” perché appare proprio nella prima giornata di questo evento di tre giorni, che pone a confronto i giovani, gli economisti. Si inizierà alle 14, si proseguirà con questo momento alle 15.30 “Tu a tu con Francesco. Santuario Spogliazione: l’alba di una vocazione, il reset di una vita”.
La tragedia di questi mesi mette a nudo le contraddizioni e i drammi silenti degli anni precedenti. Io, incerta filosofa, sono entrata nel mondo dell’economia quindici anni fa e l’ho fatto per diverse ragioni, una sopra tutte: vedevo chi si era occupato di quel settore, di quelle pagine, la sua gioia nell’entrare in luoghi dove si producevano pezzi anche piccolissimi di un universo. Quando lui se ne andò, sentii quasi il dovere di prendere in mano io quel racconto. L’unica cosa che non ho mai minimamente temuto nella vita, era imparare. Mi accorsi che quei pezzi fabbricati erano davvero magici, ma perché c’erano menti, mani e anime che si adoperavano per essi.
Una mano e un ascolto
Da allora c’è stato un reset per me, alcuni anni fa. Nessuno intuiva la tempesta nel mio cuore, forse nemmeno io. È venuta alla luce, scrivendo di un imprenditore che sapeva essere prima di tutto padre, fratello, figlio. Che se faceva un affare, correva a dare una parte di quei soldi sudati a chi non aveva nulla, neanche la libertà, facendoli scivolare tra le mani di un volontario in carcere. Che non sopportava di vedere le famiglie litigare, per questioni di denaro magari, e questo piuttosto ce lo metteva lui, persino per sconosciuti o quasi. Lui che rimaneva senza benzina per strada, perché si metteva alla prova nelle sue capacità di calcolo al millesimo e che per aiutare ragazzi in difficoltà giocava a carte perdendo con ostinazione.
Era una mano tesa, quasi distrattamente, ma in realtà era prima di tutto ascolto.
Ma quell’anno accadde qualcos’altro: una bimba di nome Chiara – con la quale avrei tanto voluto ridere, giocare, correre – lottò per oltre due mesi, per tutte le settimane, per tutte le ore della sua esistenza. Perché voleva vivere e l’ha fatto, anche se sembra che le abbiamo dovuto dire addio. Io quei giorni li ricordo tutti, anche quando arrivò la telefonata di suo zio. Lei era una farfalla volata via, eppure tante volte l’abbiamo vista posarsi nelle nostre vite.
Ad Assisi, conosciuta all’alba dei cinquant’anni, ho camminato e pregato sulle tracce di San Francesco. Ma un libro che mi ha sconvolto, a tratti segnato, è “Chiara di Assisi – Un silenzio che grida” di Chiara Giovanna Cremaschi. Una biografia che mi ha scavato dentro e mi riporta anche all’economia, sì. Al lavoro. Vedo, grazie a queste pagine, Chiara impegnata in un continuo dono di sé. Anche nel lavoro, perché la vediamo «intenta a filare» ma con uno scopo preciso, si aggiunge. Fornire di corporali le chiese povere. In lei – si dice ancora – non è presente l’idea della retribuzione come la percepiamo noi, c’è un senso della gratuità «che la porta a crescere nella libertà e nella riconoscente accoglienza dei doni della Provvidenza». Il compenso in natura che riceve, viene poi distribuito a vantaggio di tutte.
Quanti lasciati indietro
Questo mi riporta alle parole del Papa, quel suo richiamo: nessuno sia lasciato indietro.
Quanti venivano lasciati indietro, prima del Covid? Se adesso ci mettiamo a fotografare chi “serve” e chi no, in questo mondo spaventato dalla pandemia ma anche dalla necessità autoinflitta di correre come prima, è anche frutto di qualcosa di malato, più malato ancora che viene da allora. Qualcosa che non sarà facile scrollare via, neanche dopo un’esperienza del genere.
In quindici anni di attenzione all’economia, quella cosiddetta reale, legata alle persone e al loro fare, ho sentito e usato troppo spesso la parola consumatore. I consumi sono il vaccino invocato e sospirato di questi tempi, ma non sono sicura che sia proprio così.
In queste ore ancora gravose e drammatiche ho sentito tanto parlare, scherzare o inveire a proposito di scarpe andate a ruba.
Mi hanno fatto tornare in mente altre scarpe: quelle che non avevano i senza dimora quando accompagnai la Croce Rossa alla stazione, sempre nel dicembre del 2019. Un maglione largo, lo puoi infilare; pantaloni stretti idem anche se magari a fatica. Ma le scarpe, no. Se sono larghe, le perdi; se ti stringono i piedi, li feriscono. In ogni caso, non riesci a camminare.
È così difficile trovare le scarpe giuste, a chi non ha un soldo, un tetto, una casa. È difficile, perché forse non lo vogliamo. Avevamo già deciso che poteva restare indietro, se avessimo trovato delle scarpe volentieri saremmo tornati: abbiamo sussurrato alla nostra coscienza, prima di dimenticarcene.
Adesso che ci hanno fermati, possiamo tornare indietro e guardare negli occhi quei fratelli che ancora dormono al freddo, sognando un paio di scarpe. Possiamo dargliele e offrire molto di più: la costruzione di un’epoca che non torni affrettatamente a consumare, ma a dividere. Ci vuole un reset: possiamo camminare insieme a loro, a tante altre persone ferite. In poche parole, possiamo contribuire a seminare una nuova economia, the Economy of Francesco. E Chiara.